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La battaglia persa del calzolaio di Treviso

“Vietato l’ingresso a..”

Questa frase, riportata sui cartelli affissi alle vetrine dei negozi ha spesso scandito le pagine più cupe della nostra storia. Dalla discriminazione razziale a quella territoriale.

Accesissime le polemiche quando i destinatari di questi cartelli sono diventati gli animali o, addirittura i bambini, nei casi di esercizi commerciali di nicchia, come terme o ristoranti stellati.

Eppure, questa espressione tanto divisiva, potrebbe essere oggi il primo passo verso un cammino di liberazione e speranza.

Un calzolaio di treviso “fa le scarpe” alla società iperconnessa

Una piccola rivoluzione nata per caso in una piccola bottega di provincia, dove

un artigiano spazientito ha deciso di non servire i clienti che stanno usando lo smartphone.

La brutta abitudine di entrare in un negozio pretendendo di essere serviti senza interrompere la conversazione telefonica è talmente diffusa che ormai nessuno ci presta più attenzione.

Nessuno, tranne un calzolaio di Treviso, che stanco di giocare a Scarabeo, piuttosto che Pictionary per interpretare l’ordine dei clienti, ha deciso di “fare le scarpe” alla società iperconnessa attraverso un “editto” che neppure i governi più autoritari possono permettersi.

Questo piccolo, grande gesto di ribellione apre una riflessione sul rapporto morboso e pervasivo con le nuove tecnologie

Nonché su una delle regole fondamentali per tutti gli adulti che hanno, o dovrebbero avere, una responsabilità educativa.

La salute digitale delle nuove generazioni, infatti, passa certamente dall’accompagnamento, dal dialogo e talvolta dalla fermezza dinanzi al rispetto di regole chiare e condivise.

Tutto giusto, ma noi? Quale esempio forniamo tutti i giorni ai nostri figli, ai nostri ragazzi? 

Basta camminare per strada per accorgersi quanto, oggi, sia quasi impossibile non entrare nelle conversazioni, nelle fotografie, persino nelle dirette Instagram, degli altri. Non si tratta certo di interferenze, né di violazione della privacy, perché di “privato”, ormai c’è rimasto poco o nulla.

Il telefono, storicamente portato all’orecchio, ha assunto le funzioni di un vecchio Woki toki, con i quali scambiarsi a viva voce le informazioni, i giudizi, le effusioni o le ingiurie più disparate, con buona pace di chi ci sta attorno.

Se poi dai vocali si passa alle video chiamate, il livello di ingerenza si alza ulteriormente, con le telecamere degli smartphone che inquadrano indiscriminatamente qualsiasi cosa, situazione, o persona che si trovi dietro o davanti allo schermo.

Un effetto selfie che racconta molto dei nostri tempi, condizionati dalla cultura “social” anche nelle azioni più semplici, come una semplice passeggiata in centro.

Comportamenti talmente automatizzati da non trovare alcun ostacolo nella loro costante diffusione.

Il potere di un piccolo cartello

Ecco dunque che un piccolo cartello, assurto alle cronache nazionali, può rappresentare quel piccolo argine analogico al quale aggrapparsi per poter ridare un senso a termini quali privacy, intimità e buonsenso.

La favola del calzolaio, come un moderno Spartaco, potrebbe regalarci un po’ di speranza, un piccolo esame di coscienza collettiva attorno alle nostre abitudini digitali e alla necessità di recuperare la grammatica della nostra educazione, fatta di “buongiorno”, “permesso”, “grazie” e “prego”.

La paura, invece, è che si tratti di una pia illusione. E del cartello del calzolaio di Treviso resteranno soltanto i selfie e le storie davanti alla sua vetrina.